Ripensare le politiche attive per superare la crisi e far ripartire il Paese

Le politiche attive del lavoro hanno l’obiettivo di prevenire il problema della disoccupazione. Si concentrano principalmente sull’aumento dei livelli occupazionali.

In Italia, le politiche attive del lavoro sono definite dalla riforma del Jobs Act che istituisce l’Agenzia Nazionale per le Politiche Attive del Lavoro.

Ente pubblico e autonomo che si occupa del coordinamento operativo dei servizi per il lavoro è l’Anpal.

Le politiche del lavoro in Italia: un deficit storico

Le politiche per il lavoro italiane appaiono inadeguate per fronteggiare la fase di emergenza che il Paese sta attraversando sotto il profilo economico e lavorativo.

Se da un lato, infatti, le misure tese al contenimento delle ricadute occupazionali hanno dato prova di funzionamento, dall’altro, il sistema delle misure attive appare ancora troppo fragile e disomogeneo.

Il sistema delle politiche per il lavoro risulta ancora fortemente insufficiente nonostante lo sforzo fatto negli ultimi anni, dal Jobs Act fino ad arrivare al CPI.

L’Italia sconta storicamente non solo un basso livello di investimento, ma anche uno sbilanciamento strutturale su quella componente “passiva” delle politiche.

Dati 2018

Secondo i dati dalla Commissione Europea (DG Employment, Social Affair, Inclusion) nel 2018 l’Italia ha speso, per le politiche per il lavoro, 26,9 miliardi di euro.

In termini di PIL l’incidenza per le politiche del lavoro risulta pari all’1,53%.

Il basso valore attribuito alle politiche per il lavoro ha, di conseguenza, un impatto diretto sulle stesse performance del mercato del lavoro italiano.

Nel 2018, l’Italia ha speso per servizi al lavoro e misure attive solo lo 0,38% del PIL (6,7 mld di euro), praticamente la metà dell’investimento se raffrontato a quello della:

  1. Germania, con lo 0,67% del PIL (quasi 23 mld di euro),
  2. Francia con lo 0,75% (più di 17 mld)
  3. della Spagna lo 0,70% (8,4 mld).

Dati 2019

Nel 2019 l’Italia risultava prima in Europa per incidenza dell’occupazione di lunga durata sul totale dei disoccupati, con il 57% dei disoccupati in questo stato da più di 12 mesi, contro una media europea del 42%.

Anche il livello di partecipazione al lavoro risulta direttamente collegato all’organizzazione delle politiche e soprattutto dei servizi.

Un sistema che è in grado di fornire:

  • interventi mirati volti a favorire l’intermediazione tra domanda e offerta di lavoro,
  • riqualificazione per chi ha perso un’occupazione,
  • politiche di sostegno ai segmenti svantaggiati,

incoraggia la partecipazione al lavoro dei soggetti in età attiva.

L’Italia presenta, però, un ritardo difficile da colmare, con un tasso di attività ancorato sui livelli ancora estremamente bassi.

Al basso investimento in politiche del lavoro si unisce anche un marcato sbilanciamento nell’allocazione delle risorse, a favore delle politiche passive.

Ad essere penalizzata è soprattutto la voce destinata ai servizi per il lavoro.

Particolarmente critico è anche il nodo dell’intermediazione tra domanda e offerta di lavoro, che vede ancora lontani l’intercettazione tra le esigenze di aziende e lavoratori.

La formazione. Un pilastro per la ripartenza

Altra grande preoccupazione è l’orientamento che negli ultimi anni le politiche attive per il lavoro hanno avuto.

Sempre più rivolte a stimolare la domanda di lavoro, attraverso sgravi ed incentivi diretti all’assunzione, piuttosto che a promuovere una maggiore occupabilità dell’offerta di lavoro, tramite interventi formativi o a supporto dei segmenti più svantaggiati.

Basti pensare che negli ultimi dieci anni la quota destinata alla formazione è passata dal 50,2% al 30%. Se da un lato abbiamo una contrazione complessiva della spesa per misure attive del 4,6% tra 2008 e 2018, quella per la formazione si è quasi dimezzata (-43%).

Lo scarso ruolo rivestito dalla formazione nell’ambito delle politiche a sostegno del lavoro, rappresenta un elemento di criticità in un Paese come il nostro caratterizzato da:

  • bassi livelli di istruzione
  • uno storico e sempre più ampio mismatch tra domanda e offerta di competenze
  • un generale scarso investimento nella formazione, sia di base che continua

Va anche segnalato che la grande maggioranza dei programmi di formazione in Italia è rivolto a persone giovani mentre per disoccupati in età adulta le possibilità di formazione sono quasi inesistenti.

La sottovalutazione del ruolo delle politiche di formazione per gli adulti, preoccupa ancora di più in una fase come l’attuale, in cui l’espulsione dal mercato dei lavoratori più fragili sotto il profilo formativo si accompagnerà ad una crescita della domanda di competenze nuove, soprattutto in ambito tecnologico e digitale.

Dati Istat

A sostegno di ciò anche i recenti dati diffusi dall’Istat ci illustrano che su 2 milioni 310 mila disoccupati che nel corso del 2020 hanno cercato un lavoro, quasi un milione (987 mila, il 42,7%) aveva al massimo la licenza di scuola media.

Anche chi non cerca attivamente un’occupazione, ma è disponibile a lavorare, i livelli medi di istruzione sono bassi. Su poco più di 3 milioni di persone scoraggiate (200 mila in più rispetto al 2019), quasi la metà (1 milione 490 mila, pari al 49,2%) ha al massimo la licenza media.

Assegno di ricollocazione: a chi è rivolto

L’assegno di ricollocazione fu introdotto nel 2015 per favorire il reinserimento lavorativo delle persone in cerca di occupazione.

È lo strumento con cui il legislatore ha dato la possibilità ai disoccupati percettori della Nuova prestazione di Assicurazione Sociale per l’Impiego (NASpI), di fruire di una somma graduata in funzione del profilo personale di occupabilità, spendibile presso i centri per l’impiego o i servizi accreditati.

È entrato pienamente a regime da maggio 2018, dopo una deludente sperimentazione nazionale, durante la quale sono stati invitati a richiedere i servizi 28.000 percettori di NASpI e solo il 10% ha intrapreso il percorso di assistenza previsto.

Reddito di Cittadinanza

Con l’introduzione del Reddito di Cittadinanza il legislatore ha poi spostato lo strumento dell’assegno di Ricollocazione dalla platea di disoccupati amministrativi a quella dei cittadini a ridosso o al di sotto della soglia della povertà.

Solo con l’ultima legge di Bilancio (comma 325 della legge 178/2020), l’Assegno di Ricollocazione viene destinato ai:

  • percettori di NASpI ancora disoccupati dopo 4 mesi,
  • percettori di reddito di cittadinanza,
  • lavoratori in CIGS.

La situazione post Covid

La crisi economica, dovuta al diffondersi della pandemia da Covid-19, ha comportato non solo un aumento dei percettori di NASpI, ma anche un forte rallentamento della domanda di lavoro generato dai vari lockdown a livello locale.

Oggi, più che mai, risulta determinante individuare i percorsi formativi più utili per aumentare l’occupabilità delle persone espulse dal mercato del lavoro.

Ricordiamo che nell’attuale formulazione, la misura è su base volontaria. Il percettore di NASpI ha diritto, ma non è obbligato, a richiedere i servizi di ricollocazione.

Tale diritto può essere esercitato dal percettore a partire dal quinto mese e fino all’ultimo mese in cui risulta beneficiario del sussidio di politica passiva.

Diventa pertanto cruciale distribuire la popolazione dei beneficiari dell’assegno di ricollocazione per i mesi residui della NASpI.

Secondo le stime elaborate dall’Osservatorio statistico dei Consulenti del Lavoro, la popolazione che percepisce la NASpI destinataria dell’assegno di ricollocazione è pari a 1 milione e 216 mila persone nell’anno.

Dei circa 2,3 milioni di disoccupati involontari che fra il 4° trimestre 2019 e il 3° trimestre 2020 avrebbero potuto richiedere la NASpI quasi l’8,7% (199 mila individui) si è ricollocato entro un brevissimo lasso di tempo (8 giorni).

Il restante 91,3% fa richiesta del sussidio, ma solo poco più di 1 milione e 200 mila supera il quarto mese di NASpI acquisendo il diritto all’assegno di ricollocazione.

I destinatari dell’assegno di ricollocazione (pari a 1 milione e 216 mila individui, pari al 50,3% del totale dei disoccupati involontari) sono pertanto coloro che, allo scadere del quarto mese dalla cessazione, possiedono due caratteristiche:

  • non avere un lavoro
  • essere ancora percettori di NASpI

Pertanto, tale platea è solo una parte della popolazione più ampia che ha perso il lavoro in modo involontario.